Cantina Errante – La vera storia (secondo me)

In tanti mi chiedono cosa sia Cantina Errante, come sia nata, quando, da chi, e perché! Molti, anche dopo un’articolata spiegazione non lo capiscono. Fanno “si si” con la testa ma gli occhi dicono “ma di che cazzo stai parlando, dammi una birra”. Quindi, ho deciso di dedicare questo articolo di APNSP per buttare nero su bianco, una volta per tutte, la sua essenza, le sue finalità e i suoi perché.

Diciamo che, non viene subito compreso non perché non sia un progetto ben definito o perché non mi sia ben chiaro cosa sia, ma perché in realtà è tutto decisamente complesso. In più, una componente fondamentale nella quotidianità di Cantina Errante è sempre stata l’improvvisazione e l’utilizzo dell’istinto, che facendo parte, per definizione, del lato oscuro della realtà, non sono spiegabili in maniera esaustiva razionalmente.  

La cosa demoralizzante dunque, di una qualsiasi cosa definita come complessa, è che non esiste un modo diretto e semplice per raccontarla, ma, allo stesso tempo, la cosa eccitante è che sia comprensibile istintivamente, con la pancia. In realtà, è molto più facile spiegare Cantina Errante con le esperienze fisiche, con le birre, con le sensazioni, che non razionalmente a parole.

Anche se sarà difficile, e anche se non scioglierò ogni dubbio riguardo al progetto proverò a raccontarvi e a rendervi partecipi al meglio che posso.

Le origini

Cantina Errante, non è nata nel 2017 come ho visto scritto da qualche parte, ma ufficialmente è nata nel 2019. Il progetto pilota invece, nel 2018, con il mio arrivo in birrificio, ma partiamo da ancora prima che altrimenti non capiamo un bel nulla. 

Sono tornato a fine 2017 dalla mia esperienza birraria in Alaska, e stavo cercando una sistemazione lavorativa “vicino a casa”. Dovete sapere che non ci sono molti birrifici in un raggio di 100km da casa mia (Firenze sud), e soprattutto, anche se ci sono, diciamo che non risaltano molto sulla mappa birraria italiana. Vuoi perché siamo nel cuore della regione del vino, o vuoi perché i fiorentini parlano molto ma bevono poco, insomma, non ci sono birrifici dalle nostre parti.

Mi sono sempre chiesto se tutti stessero aspettando il mio arrivo per avviare un progetto del genere, e forse era proprio così (detto “alla Zlatan” proprio).

2018

Un giorno di febbraio 2018, mentre gironzolavo a bere per Firenze, come solo un vero disoccupato sa fare, capitai al Joshua Tree, un pub storico di zona stazione. Entrai, salutai Luchas (publican), ordinai una birra e lui attaccò subito:

Oh Tommy, lo conosci il Birrificio San Gimignano?”, e io:

No, mai sentito.”

Cercano un birraio e io ho fatto il tuo nome, se ti interessa, questo è il numero del proprietario, si chiama Stefano.”

Grazie di aver pensato a me! Lo chiamo domani.”

Il giorno dopo chiamai Stefano e fissai un appuntamento per fare due chiacchiere. Ve la faccio breve, assaggiai le birre (erano da rivedere), vidi il posto, lui mi fece un’offerta (da rivedere), valutai i pro e i contro, e accettai, dopotutto era il mio primo “vero” lavoro retribuito.   Mi presentai il primo giorno, 13 marzo 2018, e si presentò lo stesso giorno anche un altro ragazzo. Eravamo in due, io e un certo Simone. Caso vuole che questo Simone fece la mia stessa esperienza di lavoro a Fyne Ales in Scozia, anzi, fu proprio il mio successore alla corte di Andrea Ladas, nostro supervisore/guru/amico lassù. Iniziammo con il piede giusto e, già dopo poche ore eravamo un team affiatato.

Unico problema, eravamo in un birrificio in cui non eravamo mai stati, senza nessuno che ci potesse stare dietro passo passo a spiegarci come lavorare, dove erano le attrezzature, come funzionassero precisamente gli impianti, e soprattutto dovevamo migliorare quelle maledette birre. Era un po’ come se ci avessero buttato in una cucina di qualcun altro, dove non avevamo la minima idea di dove fossero le pentole, di dove fosse il sale o se ci fosse il sale, e dovevamo cucinare ricette pensate da altri. Un delirio.

Non avevo mai “rimesso in sesto” un birrificio e vi giuro che non è stato facile. Ricordo l’ansia del non sapere dove mettere le mani, del non sapere se una modifica che stavo facendo avrebbe davvero migliorato le cose. Inizialmente chiusi gli occhi e provai, cercando di fidarmi al massimo nelle mie capacità, poi, quando vidi che le cose andavano meglio iniziai ad avere fiducia nelle scelte che prendevo, e soprattutto, mi tranquillizzai capendo che non potevo risanare tutto in un giorno, dovevo fare una cosa alla volta, definendo al meglio quali fossero le priorità. Quindi, partendo dalle ricette, dalle procedure di lavaggio, dalla scelta delle materie prime, dalla gestione della cantina e poi tutto il resto.

Quando tutto però, ormai, sembrava migliorato e “al sicuro”, le priorità iniziarono a cambiare, gli obiettivi iniziavano a modificarsi. Non avevo più l’angoscia di rendere le birre di San Gimignano bevibili, ora, iniziava a farsi avanti la necessità di esprimere ciò che mi diceva l’istinto. Creare, dare vita a birre con un valore al di là di quelle normalmente prodotte. Ispirato dall’esperienza scozzese a Fyne Ales – dove insieme ad Andrea avevamo messo in piedi il progetto di birre acide chiamato Origins Brewing -, dai libri letti negli anni, dalle esperienze fino ad allora vissute, ho iniziato a spingere per poter fare produzioni orientate a quel mondo.

Stefano era interessato ed affascinato, ma chiaramente quando vide che stavo facendo sul serio, la risposta fu di getto:

“NO! E se poi si infetta tutto?”.

E che palle! Ben tornato in Italia, dove tutto è bello, ma solo da turista. C’è una paura diffusa verso le birre acide, le fermentazioni spontanee, soprattutto in Italia. I birrai italiani, a maggior ragione quelli che non sono mai usciti dalla loro bottega, hanno una paura fottuta di avere a che fare con queste birre, pensano che il birrificio sia una sala operatoria, e che la birra sia un malato terminale da dover curare. Ma non è così! Le birre sono dei fermentati, al cui interno dovrebbero con-vivere delle popolazioni di microorganismi, non dei ceppi selezionati, la natura vuole la diversità, non la generalizzazione ed uniformità. Quindi, non se ne parla. Niente birre acide, niente fermentazioni spontanee, solo robetta.

Fino a che.. un giorno.. sono in birrificio, avvio la cotta per fare la nostra birra chiara, effettuo l’ammostamento (mischio i grani con l’acqua), e vado ad accendere la fiamma pilota per poter scaldare l’impasto. (si, l’impianto è a fiamma diretta.)

Prendo l’accendino, lo accendo a ridosso della fiamma pilota.

La fiamma non si accende.  

E adesso?

Vado da Stefano.

“la fiamma non si accende”.

“come non si accende”

“no, non si accende”

“sei sicuro?”
“sì abbastanza.”

“prova ad andare a vedere fuori al quadro del gas.”

Vado fuori.

Il gas è piombato.

Torno dentro.

“il gas è piombato”.

“MA CHE DICI?!”

“si, sono abbastanza sicuro.”

“deve essere per la bolletta da 100€ che mi ero scordato di pagare! E adesso?”

Vado di là insieme a Simone a bestemmiare e decidere il da farsi.  Abbiamo un’unica possibilità per non buttare tutto. C’è un metodo di produzione tradizionale di una birra acida tedesca (che ho imparato a fare a Fyne Ales), per cui possiamo fare a meno del fuoco per le prime 24h, dando la possibilità a quelli del gas di togliere la piombatura. Lo andiamo a proporre a Stefano:

“è l’unico modo per non buttare tutto.”

“se è così, va bene, proviamo.”
Questa è stata la prima “prova” di una birra acida fatta sotto lo stesso tetto del Birrificio San Gimignano. Andò tutto bene, nessuna infezione, e iniziammo a pensare a come strutturare un progetto di birre acide. Quel giorno (nel giugno 2018) nacque la prima kettle sour del Birrificio San Gimignano.

Lo stesso anno nacquero anche: la Detour Riserva con Ramasin, la Griote sour (kettle sour con le amarene) e il nostro Sidro (anche questo da varietà antiche e a fermentazione naturale).

2019

Verso la fine dell’anno, mi continuavo a sentire con Andrea, il mio supervisore a Fyne Ales. Avevo intuito che voleva provare a tornare in Italia dopo cinque anni di lavoro in Scozia (aveva bisogno di un po’ di sole il ragazzo haha), e iniziammo a fare un pensierino a riformare la squadra di Origins. Stefano sembrava favorevole a prenderlo a lavorare, e così fu.

A gennaio 2019, Andrea entrò a far parte del team ed iniziammo a strutturare per filo e per segno un progetto sour/spontaneo con i contro-coglioni. Spesso, dopo lavoro io e Andre andavamo in centro a Firenze in qualche locale tranquillo, prima di tutto a bere, e poi a progettare quello che sarebbe stato il nostro sfogo-di-idee per i prossimi anni, non aveva ancora un nome, ma sapevamo cosa volevamo.

 Strategia e filosofia produttiva

Il progetto doveva prima di tutto essere credibile, doveva ribaltare la cattiva nomea che il Birrificio San Gimignano si era fatto negli anni, e per fare questo doveva avere un altro nome, ma soprattutto doveva essere ineccepibile, sotto tutti i punti di vista. Dovevamo fare la famosa rivoluzione.

Da dove partire?

Quale era il nostro obiettivo?

Ci avrebbero dato una possibilità di rivalsa?

Secondo me è sempre meglio partire con il sogno più grande che abbiamo, e poi definire i passi che servono per arrivarci il più vicino possibile. Il nostro sogno era arrivare a creare una nostra nuova tradizione birraria, creare un nostro modo di produrre birra (mi sembra un obiettivo abbastanza elevato). È come se uno chef che apre un ristorante si prefigge come obiettivo iniziale di voler creare un nuovo modo di fare cucina, è un obiettivo abbastanza ambizioso, non credete?

Volevamo produrre solo fermentazioni spontanee (naturali), usando solo materie prime del luogo, magari raccolte personalmente, ed avere il nostro processo di produzione, adatto al nostro clima, al nostro modo di vedere le cose, al nostro concetto di birra, non volevamo “copiare” chi le ha fatte prima di noi, volevamo mostrare la nostra idea e di cosa eravamo capaci. Così iniziammo a mettere i nostri famosi “paletti”, così chiamavamo i limiti oltre i quali non potevamo spingerci, le regole che avrebbero definito il nostro gioco e che avrebbero dato un peso, un valore al nostro progetto. Questi limiti ci permettevano di incanalare la nostra creatività, dando un senso al nostro lavoro. Le regole principali erano due, e appartenevano, una al mondo fisico e l’altra a quello non-fisico. La prima era che potevamo usare tutto ciò che fisicamente si trovasse a contatto con l’organismo “Birrificio”, quindi materie prime “nostre” quanto più possibile vicine a noi (foraging, varietà antiche ecc.), lo stesso valeva per i materiali, per i microorganismi ecc. Di conseguenza, era “vietato” usare ingredienti che non fossero nati e cresciuti nel nostro stesso ambiente. La seconda riguardava tutto ciò che non era fisico, il knowhow, e per quello non avevamo limiti, potevamo studiare un metodo di produzione millenario o il più avanguardistico ed attuale, e, chiaramente adattandolo al nostro metodo produttivo, lo potevamo utilizzare come volevamo.

Questo era l’obiettivo finale, ma sapevamo bene che sarebbe stato un progetto a lungo termine, o addirittura che avrebbe potuto anche non realizzarsi mai. La pressione e le incognite erano alte. Sono felice di dire che dopo soli tre anni, al di là di qualsiasi aspettativa, siamo arrivati a realizzare il sogno. Fino a che sono stato presente in birrificio (2021), Cantina Errante aveva in cantina solo fermentazioni spontanee, e la maggior parte sono prodotte con metodi innovativi, ma soprattutto le birre sono buone e caratterizzate dalla nostra mano.

Detto questo, iniziammo dal primo momento ad effettuare i primi test di fermentazioni spontanee, praticamente mai effettuate in Italia fino a quel momento. Ho detto “praticamente” perché non mi arrogo il diritto di dire che siamo stati i primi a provare fermentazioni spontanee con queste tecniche in Italia, ma sicuramente siamo stati il primo progetto strutturato a dovere e con l’obiettivo di fare solo quello.

Attuazione progetto

Il progetto aveva in programma di iniziare con le fermentazioni spontanee fatte in coolship, ma dovevamo fare subito delle quick sour – come le chiamava Andre. Ovvero, avevamo bisogno di avere delle birre che fossero:

  • Veloci”, così da poter iniziare a vendere da subito.
  • Caratterizzate e interessanti, da poter far parte del progetto.

In risposta a queste esigenze creammo due birre, una Saison, che avrebbe fermentato e maturato in legno, e una kettle sour, che sarebbe servita per fare produzioni con la frutta o altri ingredienti. Quindi, arrivati a questo punto avevamo:

  1. Spontanea
  2. Saison
  3. Kettle sour
  4. Detour Riserva con Ramasin
  5. Sidro

Le prime tre avevano la stessa identica ricetta, stessa base, lavorazioni diverse. Questo, non perché non volessimo differenziarle, ma perché stavamo sperimentando un ambiente inesplorato e volevamo ridurre le variabili in gioco. E poi a me piace lavorare con le basi.  La spontanea non sarebbe stata pronta (se mai lo sarebbe stata) prima di 2/3 anni, e le altre due dovevamo vedere dove saremmo andati a parare. Tutto era in divenire.

Ora che avevamo una strategia iniziale di produzione, potevamo iniziare a decidere il nome del progetto, le etichette e tutto quello che riguarda la commercializzazione. Per trovare il nome fissammo diversi meeting, anche invitando persone esterne (ad esempio mio fratello filosofo, Matteo), per darci una mano in una delle scelte più importanti di un progetto. Dopo varie peripezie, arrivammo finalmente ad un nome:

“Cantina Limen”

Sembrava perfetto, suonava bene, aveva una ottima filosofia dietro (troppo lunga da spiegare). Unico problema. Esisteva già un birrificio che si chiamava “Limen”. Pensavamo che non sarebbe stato un problema, ci ripetevamo: “ma si… ma sarà che ci troviamo nello stesso evento con quest’altro birrificio? Ma no, sie…” Ma la provvidenza vuole che, dopo aver confezionato già qualche birra con quel nome ed aver partecipato anche a qualche evento, arrivò una chiamata di Andrea Camaschella (un importante degustatore italiano):

“Stefano sono di fronte ad un birrificio in Calabria che si chiama Limen, mi sai dire qualcosa? Il ragazzo è tranquillo, però sai…”

Da quel giorno passammo alla “seconda scelta”, il progetto si sarebbe chiamato Cantina Errante. Una volta risolta la “questione nome”, avevamo finalmente da pensare solo alla cosa che realmente ci interessava, fare birre che spaccassero letteralmente il culo.

La Saison, che doveva essere la nostra “birra bandiera” (almeno inizialmente), si stava comportando anche troppo bene. Stava fermentando da un mese e passa in botte e non dava segni di wilderness (era troppo pulita!), dovevamo fare qualcosa. Aspetta un altro mese, e la situazione non cambia. Provammo a fare un blend con la kettle sour, per dargli quel taglio acido che l’avrebbe caratterizzata, e le avrebbe permesso di stare tra il range di Cantina Errante, e lì fu la svolta.  

4 barrique di Saison e 3 di Kettle sour, questo fu il blend.

Decidemmo di dividerla in tre uscite, così da differenziare l’offerta ed avere tre release con un’unica birra:

  1. Saison blended (la base)
  2. Saison Dry hopped – Centennial (con dry hopping di Centennial in fiori)
  3. Saison Dry Spiced – Sambuco (con dry spicing di fiori di sambuco raccolti a mano)

 Così si fa se sei a corto di birra e di idee hahah

Le birre andavano bene e la gente, anche se intimorita da quel pellegrino sul brand, incominciava ad interessarsi. Con la kettle sour rimasta ci facemmo la Gambolungo 2019, acida con le visciole, e l’ultima uscita di quell’anno fu la Nikulas Riserva 2019 con le albicocche.

2020

Durante l’annata 2020, iniziammo a mettere sulle coolship le erbe di stagione raccolte di prima mattina (da me rigorosamente alle 5 prima di andare al lavoro), con l’obiettivo di aiutare la partenza della fermentazione spontanea. Dato che la spontanea da coolship prodotta l’anno prima stava dando segni positivi continuammo a produrre lotti di fermentazioni naturali, seguendo il nostro obiettivo iniziale, ovvero quello di non utilizzare lieviti selezionati per nessuna delle birre.

Dio vuole, che a marzo ci ritroviamo investiti dalla pandemia globale, che non solo limitò le nostre vite personali, ma anche lo sviluppo del progetto. Infatti, restai lontano da lavoro (e dalle birre) per quasi 3 mesi, producendo sì e no tre lotti di Cantina Errante. La pressione su una piccola realtà come la nostra era troppo alta per continuare a produrre indiscriminatamente.

A giugno, quando finalmente tornammo al lavoro, Andrea se ne tornò in Scozia con la sua ragazza e rimasi solo in produzione, un altro delirio. Non avendo prodotto niente nei mesi precedenti eravamo a corto di praticamente tutto, sia San Gimignano che Cantina Errante, ma perlomeno avevo avuto il tempo per pensare a come sviluppare il progetto per gli anni a venire.

Forse avevo avuto anche troppo tempo libero per pensare, infatti, dalla linea base dell’anno prima, composta principalmente da una spontanea chiara, da una Saison ed una Kettle sour, si stava ramificando un progetto mastodontico di più di 10 linee di produzione e di sviluppo. Dovevamo decidere a cosa dedicarci.

Linee di produzione
  1. Quick sour:
    • Saison
      • Saison Blended
      • Saison DH
      • Saison DS
    • Kettle sour
      • Kettle sour alla frutta
      • Kettle sour alle erbe
      • Kettle sour per blend
    • Detour Riserva Ramasin
  2. Spontanee base chiara
    • Base normale (6/7%alc.)
    • Base forte (9/10%alc)
    • Con erbe
    • Con frutta
  3. Spontanea base bruin
    • Base normale (7/8%alc.)
    • Base forte (10/11%alc)
    • Con erbe
    • Con frutta
  4. Spontanera base scura
  5. Primavera (spontanea alle erbe dei mesi della primavera)
  6. Cofermentazioni delle diverse basi
    • Con frutta
    • Con erbe
    • Da microflora (esempio il NonSidro)
    • Altro
  7. Perpetue delle diverse basi
  8. Table beer
    • Da coolship
    • Da rinfresco di fermentazioni con frutta
    • Da inoculo frutta/erbe
  9. Sidro
    • Di mele
      • Con erbe
      • Con frutta
    • Di pere
      • Con erbe
      • Con frutta
    • Altri sidri
  10. Idromele
    • Con erbe
    • Con frutta
    • Altro
2021

Finalmente, dopo diversi mesi passati a lavorare da solo in quel di Poggibonsi, verso settembre 2020, e per tutto il 2021, sono stato affiancato da un giovane aitante e volenteroso, Giacomo Pazzi (detto Jack) e poi in seguito anche da Asya, a cui ho cercato di passare quanta più passione e “sapere” possibile, al fine di poter perpetrare il progetto nel futuro.

Penso di aver passato il testimone in maniera così puntigliosa ed efficiente, perchè in realtà, sapevo dentro di me, che quando ne avessi avuto l’opportunità me ne sarei andato. Essenzialmente ero stanco di aver dato e di continuare a dare tutto me stesso, per un progetto che alla fine non era realmente mio. O perlomeno, lo era, ma solamente all’interno delle mura del birrificio. Quindi, anche se il progetto era il mio sogno lavorativo più stimolante ed  appropriato alla mia visione, ho deciso di dare un taglio per dare una svolta alla mia vita personale. Adesso che sto scrivendo l’articolo, seduto in un’aula della Shenandoah University Library, a Winchester Virginia, negli Stati Uniti, non posso essere che fiero (e allo stesso tempo nostalgico e anche un pò preoccupato) al pensiero di una barrel house composta da più di 60 barrique, 10 tonneaux, 2 botti grandi, e una decina di cubitainer, riempiti di fermentazioni naturali che stanno fermentando e vivendo a più di 5000km da me, lontane dalla mia cura.

Ma in fondo so, che troveranno la loro strada, anche se, da ora in poi con una variabile in meno, la mia.

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